Leggi questo passo – sono bellissimi versi – della Chândogya-upanishad (VII.23.1), ove si afferma:
In verità, l’infinito è la felicità.
Non c’è felicità nel finito,
solo l’infinito è felicità.
Ma bisogna voler conoscere l’infinito …
Là dove null’altro si vede,
null’altro si ode,
null’altro si conosce,
quello è l’infinito.
Là dove si vede qualche altra cosa,
si ode qualche altra cosa,
si conosce qualche altra cosa,
quello è il finito.
Quel che è infinito è immortale,
mentre ciò che è finito è mortale.
(cfr. Saggezza hindû, a cura di Pinuccia Caracchi e Stefano Piano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1998, p. 200)
E confrontalo con i versi che il nostro grande poeta Giacomo Leopardi ha dedicato proprio all’infinito:
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
Curiosa similitudine, vero? La saggezza è proprio eterna!
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