Una delle “allucinazioni percettive” che caratterizzano il nostro modo di approcciarci alla realtà, è quella di prendere per felicità qualcosa che è sofferenza o non appagamento. Agli occhi del mondo la felicità consiste per lo più nel godimento dei piaceri dei sensi. Non poco del nostro tempo è speso cercando l’eccitazione di un’esperienza piacevole o lavorando sodo in vista di un piacere futuro. Ma dato che tutti i piaceri sono impermanenti, la ricerca non ha fine. Come diceva Nasruddin, protagonista delle storielle sapienziali sufi, ingoiando uno dopo l’altro peperoncini piccantissimi: “Aspetto quello dolce”.
A volte siamo attratti da un piccolo piacere che nasconde una sofferenza molto maggiore. Lo si vede chiaramente in molte dipendenze pericolose, ma anche nella vita di tutti i giorni. Di recente leggevo le statistiche sui danni all’udito derivanti dall’assistere a concerti rock assordanti o ascoltare gli MP3 a volume troppo alto. Per qualche motivo, scambiamo per felicità un impatto acustico nocivo.
In questa allucinazione percettiva spesso ci illudiamo che desiderare sia di per sé felicità. Che effetto fa quando credete di dover avere o fare qualcosa e nella mente c’è quella particolare ossessione che se ne va solo quando il desiderio viene soddisfatto o scompare spontaneamente? E crediamo che questa sia la felicità, fino al momento in cui smettiamo di volere e proviamo il sollievo e l’agio che ne derivano. Paradossalmente, ciò che agli occhi del mondo è sofferenza (la rinuncia, il controllo delle porte sensoriali, il silenzio, la semplicità, un ambiente con poche distrazioni) per il Buddha è felicità, per via dell’agio, dell’apertura di cuore e della serenità che arrecano.
Vedere questa allucinazione percettiva come tale (considerare soddisfacente ciò che in ultima analisi è insoddisfacente) apre le porte a una grande compassione. Si dice che dopo l’illuminazione il Buddha sia stato spinto a insegnare dalla compassione, perché vedeva che tutti gli esseri cercano la felicità, vogliono la felicità, eppure si comportano in modo da procurarsi sofferenza. Dissipare le nostre allucinazioni può diventare combustibile per il bodhicitta, il desiderio di risvegliarsi per aiutare gli altri a trovare una felicità più autentica.
[ Da: Joseph Goldstein, “Mindfulness. Una guida pratica al risveglio“ ]
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